Senza nulla togliere alla gravità della violenza maschile sulle donne,
credo sia giunto il momento di coniare un nuovo termine anche per il
fenomeno opposto: maschicidio.
Perché anche il maschio può essere vittima della violenza femminile.
Di certo lo è dell’informazione unidirezionale e di una cultura
dominante che procede per stereotipi e pregiudizi: la donna è sempre
docile incolpevole vittima e l’uomo sempre carnefice e bastardo. Ma la
verità sta sempre in mezzo. Dopo l’elezione di Donald Trump e l’apertura
del vaso di Pandora sui media che nascondono, insabbiano o discreditano
modificando la verità secondo ideologia (o stereotipi), è emerso il
bisogno di autenticità. Di una verità tale a trecentosessanta gradi, la
sola capace di darci gli strumenti per risolvere il gap culturale che
permette ancora differenze sostanziali tra uomini e donne. E che può
fornirci forse perfino la soluzione per diminuire il numero dei
femminicidi, costante nel tempo nonostante i passi avanti anche
legislativi.
Non possiamo dunque non tenere conto, quando osserviamo il fenomeno
del femminicidio, dell’altra faccia della medaglia: la condizione
maschile, l’emancipazione psicologica dell’uomo, i pregiudizi legati al
concetto di maschio e il tabù che riguarda la violenza femminile sul
sesso opposto. Violenza che esiste – anche se raramente ha dinamiche
omicidiarie – e che riguarda la psiche, il portafogli e perfino la
sessualità. In Italia sono poche le indagini in questo senso. Una di
queste – passata quasi inosservata – è stata effettuata nel 2012 da una
equipe dell’Università di Siena su un campione di uomini tra i 18 e i 70
anni. La metodologia è la stessa utilizzata dall’Istat nel 2006, per la
raccolta dei dati sulla violenza contro le donne e che ancora oggi
vengono riportati con grande enfasi. Secondo l’indagine dell’Università
di Siena, nel 2011 sarebbero stati oltre 5 milioni gli uomini vittime di
violenza femminile configurata in: minaccia di esercitare violenza
(63,1%); graffi, morsi, capelli strappati (60,05); lancio di oggetti
(51,02); percosse con calci e pugni (58,1%). Molto inferiori (8,4%), a
differenza della violenza esercitata sulle donne, gli atti che possono
mettere a rischio l’incolumità personale e portare al decesso.
Una differenza rilevante questa, che in parte giustifica la maggiore
attenzione al femminicidio. Nella voce «altre forme di violenza»
dell’indagine (15,7%) compaiono tentativi di folgorazione con la
corrente elettrica, investimenti con l’auto, mani schiacciate nelle
porte, spinte dalle scale. Come gli uomini anche le donne usano forme di
violenza psicologica ed economica se pur con dinamiche diverse:
critiche a causa di un impiego poco remunerato (50.8%); denigrazioni a
causa della vita modesta consentita alla partner (50,2%); paragoni
irridenti con persone che hanno guadagni migliori (38,2%); rifiuto di
partecipare economicamente alla gestione familiare (48,2%); critiche per
difetti fisici (29,3%). Insulti e umiliazione raggiungono una quota di
intervistati del 75,4%; distruzione, danneggiamento di beni, minaccia
(47,1%); minaccia di suicidio o di autolesionismo (32,4%), specialmente
durante la cessazione della convivenza e in presenza di figli, spesso
utilizzati in modo strumentale: minaccia di chiedere la separazione,
togliere casa e risorse, ridurre in rovina (68,4%); minaccia di portare
via i figli (58,2%); minaccia di ostacolare i contatti con i figli
(59,4%); minaccia di impedire definitivamente ogni contatto con i figli
(43,8%). Nulla di nuovo rispetto alle ricerche sulla violenza
nell’ambito delle relazioni intime condotte in altri paesi, dove c’è una
maggiore propensione a studiare il fenomeno tenendo conto di entrambi i
sessi.
In una ricerca effettuata nel 2015 nell’ambito del progetto europeo
Daphne III sulla violenza nelle dinamiche di coppia e che coinvolge 5
paesi tra cui l’Italia, analizzando un campione di giovani tra i 14 e i
17 anni: le ragazze che hanno subito una forma di violenza sessuale
variano dal 17% al 41% in base all’entità dell’aggressione e i ragazzi
dal 9% al 25%. Allora, tenendo conto del fatto che la violenza femminile
sugli uomini è di entità più lieve, non possiamo negarla. Dobbiamo
prendere atto che il problema della così detta violenza di genere va
affrontato da un nuovo punto di vista. Gli sportelli antiviolenza, per
esempio, sono attualmente dedicati per lo più alle donne e, come afferma
Luca Lo Presti, Presidente di Fondazione Pangea, non sono sempre in
grado di gestire la richiesta di aiuto del sesso opposto. «Oggi siamo al
paradosso – sostiene Lo Presti – che un uomo cosciente di avere un
problema legato alla mancanza di controllo della violenza e che chiede
aiuto perché ha paura di ferire a morte la compagna, si trova di fronte a
muri altissimi. Quando si presenta in un centro antiviolenza ci sono
casi in cui viene aggredito psicologicamente e criminalizzato come se
dovesse pagare per tutti, in quanto ritenuto parte di una categoria di
esseri umani sempre carnefici». Oppure capita che se un uomo è vittima
di una forma di violenza e trova il coraggio di denunciare – nonostante
il rischio di derisione perché dimostra una fragilità non consona allo
stereotipo di virilità e forza -, allora non è creduto. Perché il cliché
lo vuole capace di reagire al sopruso senza fare una piega. In un caso e
nell’altro non c’è soluzione. Senza la capacità di ascolto e di aiutare
gli uomini concretamente a gestire gli impulsi distruttivi o a risanare
una ferita dovuta ad abusi subiti da una donna, non ci sarà mai la
possibilità di risolvere un problema profondo e articolato come quello
della violenza domestica. Oltre il genere però. Perché il centro di
tutto non siano i maschi o le femmine, ma la persona.
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